Le origini dei nomi
La toponomastica è materia incandescente, capace di scottare e, spesso, anche di dividere le persone:
in questa terra ne sappiamo qualcosa. Perciò, quando non viene strumentalizzata per fini che le sono estranei, si preferisce accantonarla in attesa di tempi migliori...
A nostro avviso, invece, la conoscenza dei nomi dei luoghi e della loro origine è indispensabile: non per stabilire primati o fomentare polemiche ma per comprendere i luoghi stessi e chi, nel corso dei secoli, li ha frequentati.
I Nomi
I nomi vanno visti come entità vive, "corpi" che nascono (quasi sempre per necessità concrete) e a volte muoiono e che comunque nel corso della loro esistenza subiscono l'influenza del tempo: anzi si potrebbe dire che assorbano il tempo come spugne, se ne nutrano e poi ne conservino, al pari dei reperti che gli archeologi trovano nel terreno, gelosamente la storia.
Per venire a noi, a Laives: come nel resto delle regioni alpine, anche qui gran parte dei toponimi sono di origine preromana, retici o precedenti, altri decisamente romani, altri ancora adattamenti operati nel corso dei secoli da Celti, Etruschi, Romani, popoli germanici eccetera. Ogni popolo arrivato qui ha per così dire impresso il suo marchio ai nomi dei luoghi: siano essi paesi, località, fiumi, ruscelli, prati, masi o altro.
A Laives i nomi non sono tantissimi ma alcuni sono assolutamente affascinanti e pregni di storia - ad iniziare dal nome stesso del paese. Cercheremo di decifrarli per comprendere, insieme alla loro, anche la nostra storia.
© Reinhard Christanell 2016
L'origine dei nomi
Chi "inventa" i nomi dei luoghi? Quali sono i luoghi che ottengono un nome? E, sopratutto, a cosa "servono"?
Ci poniamo queste domande perché ci permettono di comprendere che cosa esattamente sia - o non sia - un toponimo.
La risposta alla prima domanda è, per fortuna, semplice: di solito, il primo che arriva. Di solito - ma non sempre - e non solo. I padri (o le madri) dei toponimi non sono certo gli studiosi chiusi nelle loro stanze (e quindi condannati ad arrivare sempre per ultimi) ma quasi sempre persone comuni, semplici - a volte degli autentici burloni che non si curavano della scienza e men che meno della toponomastica. Quindi, è abbastanza ovvio che anche i termini scelti per designare un determinato luogo siano di norma semplici, pratici, comprensibili a tutti coloro che vi fanno riferimento. Insomma, la toponomastica è sicuramente una materia "popolare" e perciò per addentrarsi nei suoi meccanismi è necessario applicare un metodo speculare a quello dei suoi "padri": non esclusi un po' di fantasia e di buon senso.
I luoghi che in origine ottenevano un nome ricorrente erano quelli di maggiore importanza per le persone che si insediavano in un determinato territorio: perciò soprattutto corsi d'acqua, terreni coltivabili, pascoli, rilievi eccetera. Chiaramente in un'epoca in cui tutto avveniva per via orale il fatto di denominare un pezzo di terra era anche un modo per appropriarsene: la terra x è mia, quella y è tua. Successivamente, anche gli insediamenti stessi ottengono un nome. Per ironia della sorte, molto spesso il nome scelto dagli abitanti era diverso da quello attribuito al luogo da altre tribù: per cui oggi spesso sappiamo come veniva chiamato un luogo o un gruppo di persone dai Romani o dai Greci ma ignoriamo come quelle persone chiamavano se stesse e il loro villaggio. Interessante è anche il fatto che vi sono molti luoghi con lo stesso nome: e ciò deriva dal fatto che le persone erano molto mobili e volentieri attribuivano lo stesso nome ai vari luoghi che frequentavano. Pensiamo agli Europei emigrati nel nuovo mondo, dove molte città hanno lo stesso nome dei luoghi d'origine degli emigranti.
Il fatto di attribuire un nome ad un luogo permette di storicizzarlo; in altre parole, di attribuirgli un tratto "umano", di inserirlo di fatto nel piccolo o grande universo di quel determinato gruppo di persone. In secondo luogo, il nome "legittima" il possesso, insomma riduce le controversie tra i membri del gruppo stesso. Ovviamente, il "secondo" (o successivo) che arriva tende a sopprimere immediatamente il nome preesistente e a imporre il proprio nome ad un territorio: e ciò in una catena praticamente infinita. A volte dei nomi precedenti rimane traccia in quelli successivi, altre volte vengono completamente cancellati. Infine, non di rado il nome serve a stabilire un rapporto privilegiato con una divinità protettrice: ti dedico questo luogo e tu in cambio proteggi me, la mia famiglia, i miei raccolti...
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Le lingue
Prima di occuparci finalmente dei vari toponimi di Laives, dobbiamo soffermarci brevemente sui popoli che qui sono transitati e sulla loro lingua.
Alcuni studiosi sono dell'avviso che i nomi più antichi siano quelli dei fiumi (idronimi), risalenti a un periodo immediatamente successivo all'ultima era glaciale. È un'epoca di grandi migrazioni e le testimonianze certe sono scarsissime: perciò non ci addentriamo su questo terreno ma ci basta sapere che da quel tempo incomincia la consuetudine di denominare i luoghi.
Dobbiamo invece arrivare attorno all'anno 1000 per trovare i primi nomi certi e documentati nella zona alpina: e ciò grazie ai cd. Reti, una popolazione di cui si è detto tutto e il contrario di tutto. Per quel che ci riguarda, ci sembra di poter condividere la tesi che li ritiene una popolazione di origine mesopotamica/babilonese e di lingua accadica: vale a dire semitica come l'arabo e l'ebraico. Dovrebbero essere arrivati dalle nostre parti in seguito alla grande crisi che interessò tutte le civiltà mediterranee verso il 1200 a.C., crisi che provocò enormi cambiamenti e il passaggio dall'età del bronzo a quella del ferro.
Il Retico fu la lingua usata per ca. 1000 anni nelle nostre terre e perciò non deve stupire se anche dopo la conquista romana molte parole e in particolare i toponimi sono sopravvissuti, seppure in forme spesso irriconoscibili a prima vista. Certo non mancano contaminazioni, variazioni, prestiti da altre lingue: celtico, etrusco (i Reti usavano l'alfabeto etrusco che però è sprovvisto di alcune lettere presenti nel Retico), antico veneto, ligure eccetera, ma la base è quella retica.
Successivamente i Romani hanno modificato molti nomi introducendo anche i prediali von desinenza in -anum come Bauzanum (questi sono comuni anche nel celtico/gallico), e la stessa cosa hanno fatto i popoli germanici arrivati per ultimi dal medioevo in poi.
Facciamo ora, per capirci meglio, un piccolo esempio: il nome del paese Vadena. Sappiamo, grazie ai numerosi ritrovamenti, che questo insediamento fu molto
importante per diversi secoli, dall'età del bronzo fino alla scomparsa dell'impero romano. Perciò anche il suo nome assunse diverse forme, da Uatena a Pfatena e molte altre ancora, tra cui il latino vadum, guado, dato che era il luogo in cui era possibile attraversare l'Adige.
In realtà, all'origine del nome Vadena abbiamo il retico Ftan, che significa patria mia o terra mia, come in arabo watan ha lo stesso significato. Da Ftan a Vadena/Pfatten la strada sembra lunga ma in realtà il percorso ci permette di guardare e capire la nostra storia in modo diverso e più esaustivo rispetto a chi predilige tempi brevi e una certa miopia storica.
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Raut
Se osserviamo una qualsiasi mappa di Laives, noteremo che i nomi ufficialmente citati sono di fatto abbastanza pochi e concentrati nella parte alta (e dunque più abitata) del paese. Inoltre, sono stati trascritti fin dal medioevo (prima i nomi si trasmettevano per via orale) solo i nomi "storici" in uso nella fase in cui vennero prodotte le prime carte mentre sono andati perduti quelli antecedenti e, stranamente, non sono quasi mai riportati quelli relativi all'ultimo secolo, tipo "Caneve/Kalter Keller" o "Saonara".
Partiamo allora da uno dei toponimi più antichi e, anche, più misteriosi e dimenticati: Raut. Sono ormai pochi quelli che ricordano/usano questo nome e pochissimi sanno a che parte del territorio comunale appartenga.
Raut era definita la parte bassa di via Marconi (caserme Guella/Gutleben-Casa Rossa) fino alle case "Curti" e oltre fino all'odierna linea ferroviaria del Brennero.
Per capire perché questa consistente fetta di territorio venne chiamata così bisogna capire cosa significa Raut.
Il nome deriva dall'antico verbo tedesco reuten, in precedenza anche riuten, oggi sostituito da roden (scrive infatti il poeta medievale Hans Sachs: mein hofflikait ist ackern, seen, schneiden, dreschen, hayen und meen, reuten und ander arbeit mer / il mio compito è lavorare i campi, seminare, mietere, ... disboscare e altro...), che significa dissodare, disboscare, liberare il terreno da piante, radici e erbacce (in tedesco Un-kraut) per renderlo adatto alla coltivazione. Insomma, è evidente che quella parte del paese un tempo era ancora incolta, coperta da fitta boscaglia, simile a quella ancora esistente nei pressi del vicino Rio.
Reuten o roden è tuttavia termine antichissimo, preromano, ed è strettamente legato a "radice", latino radix, sanscrito vardh -ati, celtico gwreiddyn, antico tedesco wurz-a. E con Wurza, senza volerlo siamo già arrivati ad un altro termine tipicamente laivesòt!
Riassumendo: Raut, accanto a Reit, Reuth, Rod, Rode, Ruit (in italiano si potrebbe dire Radura) eccetera è una delle varie forme esistenti per definire terreni disboscati in epoche remotissime. Possiamo dunque concludere che il nome Raut risale al periodo in cui gli abitanti di Laives (o famiglie immigrate da zone più o meno vicine, forse addirittura scese da Nova Ponente attraverso la Vallarsa in quanto già nel 13. secolo vi furono abitanti di quel comune costretti ad emigrare anche in Trentino a causa della carenza di terreni agricoli) andarono alla ricerca di nuovi terreni da coltivare accanto a quelli già esistenti nella parte alta del paese ed era di fatto talmente radicato da essere poi ripreso in epoca medievale e riportato in tutte le mappe fino ai tempi nostri.
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Vallarsa/Brantental - la storia di un errore
Uno dei toponimi più antichi e significativi - e nel contempo più fraintesi - di Laives è Vallarsa - Brantental (o Brandental). La stretta e a tratti cupa vallata come la conosciamo oggi dovrebbe essersi stabilizzata in seguito all'ultima era glaciale e di fatto il territorio su cui sorge il paese è costituito dal materiale alluvionale proveniente da questa valle.
Per decine di secoli (forse per millenni) la Vallarsa è stata l'unica via di collegamento (per uomini, animali e merci) tra l'altipiano di Nova Ponete (Regglberg-Monte Regolo) e la valle dell'Adige, in particolare Laives, Vadena e Bolzano. Insomma, si può dire che l'importanza di Laives è dipesa per molto tempo proprio dal fatto di essere collocata all'imbocco di questa essenziale via e di "controllarne" l'accesso.
La valle era discretamente abitata e vi si trovavano numerosi mulini, segherie e punti di ristoro che fino agli anni sessanta del secolo scorso erano assai noti e molto frequentati (pensiamo solo allo storico "Baffo", al Moser, al mulino Tommele). Ancora nel 1850 e poi anche successivamente verso il 1910 si pensò di realizzare una vera e propria strada carrabile attraverso la Vallarsa ma alla fine venne scelta la Val d'Ega e la Vallarsa rimase com'era.
Insomma, se grande era l'importanza della Vallarsa per il paese di Laives, altrettanto grande è l'importanza del suo antico, misterioso nome - la cui corretta interpretazione ci consentirà di gettare nuova luce sulla storia di Laives.
Diciamo allora subito che cosa NON significa Vallarsa/Brantental. Perché, come già detto, si tratta di un nome frainteso da sempre: forse per superficialità, forse per convenienze di qualche natura. Di fatto si potrebbe dire che il nome è vittima di una duplice o triplice traduzione errata e fuorviante. In che senso? ci si chiederà non a torto. Semplice: chiunque conosca questa valle sa che si tratta di un luogo fresco, umido, ombroso (in certe parti il sole manca per sei mesi l'anno), insomma esattamente il contrario di quel che il suo odierno nome vuole dare a intendere. Non c'è nulla che arde, in Vallarsa! Né oggi né in passato: da sempre la Vallarsa è il rifugio dei Laivesotti piccoli e grandi nelle giornate di calore estivo proprio perché non è né calda né bruciata. Lo stesso discorso vale ovviamente in ugual misura per il tedesco Brantental (da Brant/d, incendio, e brennen, bruciare).
Nulla brucia, in valle.
E allora? Un abbaglio, né più né meno: non sappiamo se volontario o meno ma, di certo, un clamoroso, lampante errore. La Vallarsa non è mai stata una valle arsa: vedremo in seguito perché e quale è invece il suo autentico, antico nome.
© Reinhard Christanell 2016
Vallarsa/Brantental - due domande
Prima di risolvere l'enigma del nome autentico della Vallarsa/Brantental, dobbiamo rispondere ad alcune domande: possiamo dire con certezza che il nome di questa valle appartiene ai "tempi antichi"? Si può risalire al suo primo nome?
Al primo quesito non possiamo che rispondere affermativamente. Siamo certi che questa valle e il rio omonimo portano un nome da almeno 2500 anni - ma con ogni probabilità ne avevano uno anche prima, quando nacquero i primi, minuscoli e forse temporanei insediamenti ai piedi del Montelargo.
Il motivo è semplice: sappiamo che i Reti, di cui a Laives gli archeologi hanno trovato ampie tracce, usavano denominare tutti i luoghi geografici importanti (oltre ai villaggi stessi specialmente corsi d'acqua, promontori, pascoli e campi), tant'è che conosciamo centinaia e centinaia di toponimi retici sopravvissuti nei territori da loro abitati.
Abbiamo, in merito, già fatto l'esempio di Vadena, sull'altra sponda dell'Adige: dal termine retico Ftan, che significa terra mia, il nome del luogo nei secoli ha assunto diverse forme: Fethane, Fetana (forse traduzione etrusca, dato che all'epoca i Vadenotti commerciavano alacremente con quel popolo), Vatina, Vatuna, poi nel medioevo Uatina, Pfatena eccetera fino al termine odierno. Possiamo aggiungere alla lista anche un altro noto toponimo retico: Purucasuna, Bressanone, trasformato mediante l'eliminazione di due vocali in Prucsuna, poi Prichsi-na. Altro nome molto importante: Tirol. Non è, come si crede, un nome arcitedesco coniato dai conti omonimi ma deriva dal retico Tirale, tir-ale, che potrebbe significare terra di un certo Tir, oppure terra abitata da animali selvatici...
Ma torniamo a noi: è dunque evidente che i Reti mai e poi mai avrebbero rinunciato a dare un nome (appropriato) ad un luogo di primaria importanza, alla principale via di collegamento con i luoghi sacri, con le fonti d'acqua e con i pascoli in altura... Come se il Comune di Laives decidesse di togliere il nome alla via Kennedy: impensabile. Aggiungiamo inoltre, che in zona troveremo altri nomi risalenti a quel periodo, come per esempio Reif e Comp.
Rispondiamo anche alla seconda domanda: qual'era il suo primo nome? In questo caso, per il momento, non possiamo esprimerci con certezza, benché sia ormai assodato che in Eurasia specialmente i corsi d'acqua ottennero un nome già 5000 o 6000 anni prima di Cristo. Tuttavia, nel nostro caso possiamo solo "immaginare" e non provare quale sia stato il nome della Vallarsa, poiché i Reti non furono i primi occupanti stabili e "acculturati" del nostro territorio e quindi un nome (forse da loro ripreso o adattato) lo trovarono, al loro arrivo. Questo nome era probabilmente espresso in una delle protolingue mediterranee parlate dalle zone alpine fino in Sicilia ancora ai tempi di Oetzi. Non escluderei che si sia trattato di un termine sanscrito (lo vedremo successivamente), dato che questa era la lingua dei Shekeles (Siculi, dal termine shekel, falce, in tedesco Sichel), popolazione arrivata sulla penisola nel 1700 a.C. dalle coste dalmate (e prima ancora dal Caucaso e dall'odierno Pakistan) e capace di unire tutti i territori italici nel periodo del re Italo. La loro divinità principale era Adrano, da cui presero nome anche Adria, Atri e il mare Adriatico.
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Vallarsa/Brantental: la "Val"
Il prof. Ernst Risch (1911-1988) ha provato inequivocabilmente che la lingua retica non appartiene alla famiglia indoeuropea, come sul suolo europeo solo l’Ungherese, il Finnico e il Basco. Successivamente il linguista svizzero Linus Brunner ha accostato il Retico all’area semitica e precisamente all’Accadico parlato in Mesopotamia a partire dal 26. secolo a.C. Altri studiosi hanno avanzato altre ipostesi, collegando il Retico all’Etrusco, al Veneto, al Ligure eccetera. I Reti usavano l’alfabeto etrusco, derivato da quello greco e fenicio. Le difficoltà di interpretazione della loro lingua dipendono anche dal fatto che l’Etrusco non conosce le lettere o, g e d, per cui i Reti erano costretti a soluzioni di compromesso per esprimere determinati suoni. Inoltre, essi scrivevano da destra a sinistra e senza spazi e interpunzione, per cui non è semplice decifrare correttamente parole e frasi.
Per esempio: VELKHANULUPINUPITIAVEKUS(A)ENKUSTRINAKHE è un’iscrizione rinvenuta su un contenitore di bronzo. Essa è stata così scomposta e letta: VELKHANU LUPINU PITIAVE KUS(A) ENKUS TRINAKHE, ovvero “Io, Velkhanu, ho realizzato questo boccale/tazza di bronzo per Upinu di Padova".
Quando i Reti arrivarono dalle nostre parti, non trovarono tuttavia terreno vergine. Altre popolazioni li avevano preceduti (e probabilmente convissero con loro per un certo tempo), assegnando i loro nomi espressi in un idioma indogermanico ai vari luoghi geografici. I Reti si comportarono né più né meno come i loro successori, dai Romani ai Longobardi, dai Baiuvari fino ai nostri nonni. Insomma utilizzarono i nomi preesistenti trasportandoli nella loro lingua con le modifiche necessarie alla comprensione da parte del loro popolo. Perciò troviamo molti toponimi retici con radice sanscrita, come oggi possiamo riconoscere nomi italiani di origine tedesca o viceversa. Inoltre, i rapporti tra popoli vicini erano molto frequenti, per cui non mancano ibridi celtico/retici o etrusco/retici. Insomma, la prudenza e una certa dose di “immaginazione” sono indispensabili per una corretta lettura dei toponimi antichi.
Come procedevano i Reti? Nella loro fase iniziale utilizzarono perlopiù monosillabi, ai quali successivamente vennero aggiunti suffissi composti da una consonante e una vocale, quasi sempre u o a. Otteniamo in tal modo nomi con desinenze in –usa, -usuna, -urusa eccetera.
E la nostra Vallarsa/Brantental? Sicuramente il monosillabo iniziale, probabilmente coniato già in epoca protostorica, si riferiva al nostro termine “valle”, (latino valles). Infatti in tutta l’area alpina la radice “vul” (sanscrito var=val, territorio coperto da monti), con successive modifiche in “vel”, “val” “fel” o “fal” è frequentissima in centinaia di toponimi. Vul è dunque la parola retica per valle, e sappiamo anche che nel corso dei secoli la –u retica si trasformò in –a, da cui dunque “val”. Curioso il fatto che anche il tedesco Tal (dhel=dholo) derivi da questa forma primordiale.
Si può dunque ragionevolmente supporre che il nome originario della Vallarsa sia semplicemente Vul (e successivamente “Val”), “la Valle”. Molte valli alpine portano questo stesso nome. Questa ipotesi è suffragata dalla circostanza che questa valle è l’unica esistente a Laives, ragion per cui non era necessario specificare di quale valle si trattasse. Del resto, anche ai nostri giorni nessuno dice: “Vado in Vallarsa”, ma semplicemente “vado in valle – ich gehe ins Tal”. Non serve dire in "quale" valle: nella "nostra" unica valle. La memoria collettiva, fino al medioevo capace di tramandare di generazione in generazione nomi, avvenimenti e storie millenarie, ha miracolosamente conservato questo nome come un fossile trasportandolo inconsapevolmente fino ai nostri giorni.
Vedremo prossimamente perché a valle o “Val” sia stato aggiunto il suffisso “arsa”: e per forza di cose ci occuperemo anche del rio che scende lungo la valle stessa e il cui nome è probabilmente “nascosto” sotto questo aggettivo.
© Reinhard Christanell 2016
Vallarsa/Brantental: il Rio
La nostra modesta indagine sui toponimi di Laives rappresenta, con tutti i limiti nostri e quelli imposti dal mezzo utilizzato, una sintesi delle attuali conoscenze scientifiche in materia: vale a dire le scoperte degli archeologi (e Laives ha avuto la fortuna di averne di bravissimi sul proprio territorio, come per esempio Lorenzo Dal Rì) e le riflessioni di linguisti e storici che da un secolo e mezzo si interrogano sui misteri della "Terra tra i monti", come era chiamato il Tirolo (o la Rezia preromana, se si preferisce) fino a mille anni fa.
Come già detto, l'unico obiettivo è quello della conoscenza di alcuni aspetti "culturali" delle popolazioni che ci hanno preceduto e della preziosa eredità che ci hanno lasciato. Invece la propaganda politica, le verità "ufficiali", i dogmi calati dall'alto e sprovvisti di qualsiasi fondamento scientifico, non rientrano nel nostro orizzonte. In altre parole, degli avvenimenti recenti (tra cui l'opera di E. Tolomei) ne siamo perfettamente a conoscenza ma, per il momento, la nostra indagine riguarda un periodo diverso: l'epoca preromana. Pre-romana significa prima dei Romani, ossia prima dell'anno 15 a.C.: e se c'è una cosa della quale siamo certi è proprio quella che in quei tempi a Laives non c'erano né Tedeschi né Italiani. Per chi ancora avesse dei dubbi, riportiamo qui le prime frasi della voce "Tiroler Ortsnamen" (Toponimi del Tirolo) in Wikipedia: "Tiroler Ortsnamen zeichnen sich durch eine besonders hohe Dichte von vorrömischen geografischen Namen aus, und diese wiederum können aus unterschiedlichen Namensschichten stammen. So lassen sich im heutigen österreichischen Bundesland Tirol und in den italienischen Provinzen Südtirol und Trentino mindestens zwei vorrömisch-nichtindogermanische und drei vorrömisch-indogermanische Schichten ausmachen. (I toponimi del Tirolo risalgono in gran numero a un periodo preromano e questi a loro volta si basano su vari strati di nomi preesistenti...)."
Detto questo, ritorniamo alla Vallarsa: luogo incantevole e frequentatissimo anche nell'antichità. I motivi, lo sappiamo, erano diversi: economici, "urbanistici" e, non ultimo, religiosi. La "Val" forniva legname, porfido per le costruzioni e, soprattutto, l'elemento primario per i piccoli insediamenti: acqua. Il rio che scorre lungo la valle ha probabilmente inciso in modo determinante sulla nascita del paese: e vedremo più avanti come e quando.
Ai nostri giorni, il rio non ha un vero e proprio nome, perché Rio Vallarsa è indubbiamente una soluzione poco convincente. Molto meglio la versione tedesca: Brantenbach. In realtà, come per il termine "Val", anche nel caso del rio ancora oggi nessuno usa il termine Rio Vallarsa ma semplicemente "Rio", in dialetto "Rì". Se parliamo di "Rì" tutti sanno a cosa ci si riferisce, senza bisogno di specificare di quale rio si tratti. Siamo tuttavia convinti che questo corso d'acqua, nei tempi di cui ci occupiamo, abbia portato un vero nome proprio: perché tutti i corsi d'acqua nella terra dei Reti avevano un nome. Proveremo dunque - con la solita cautela imposta dalla carenza documentale - ad avanzare delle ipotesi che ognuno potrà giudicare in tutta serenità.
© Reinhard Christanell 2016
Valarnusa
La parola retica per rio, ruscello (Bach) è "arn". Questo termine si usava specialmente per corsi d'acqua che scendevano lungo ripide vallate, perché esiste anche l'aggettivo "arn" per scosceso, ripido. "Arn" compare in moltissimi idronimi (per esempio S-arn-tal, A-h-rn- tal, S-arn-onico, Arn-o eccetera). Dunque, applicando al nostro caso particolare (Rio Vallarsa) alcune regole generali ormai assodate (ed in particolare quella che gli antichi usavano nomi brevi, pratici e comprensibili a tutti), possiamo senz'altro affermare che il nome originale del Rio che percorre la Vallarsa era questo "Arn-u", come Vul (e poi Val) era il toponimo usato per definire la valle stessa.
Possiamo fare queste affermazioni anche sulla scorta delle ricerche di alcuni illustri linguisti, tra cui il prof. Hans Krahe (1898-1965) dell'Università di Wuerzburg e Heidelberg, fondatore dell'archivio degli idronimi tedeschi, secondo il quale gli idronimi sono degli autentici monumenti risalenti a epoche pre- e protostoriche (servivano a delimitare i territori), capaci, in assenza di testimonianze scritte e iscrizioni, di rivelarci chi visse in un determinato territorio e che lingua parlò. La scoperta forse più sensazionale è quella che di fatto gli idronimi rimasero invariati per millenni anche dopo la scomparsa di chi li aveva creati, sopravvivendo come fossili nelle epoche e lingue successive. Inoltre, tutti i corsi d'acqua portavano nomi che avevano una qualche attinenza con i termini "acqua" o "sorgente".
Dunque, per Rio Val(l)-arsa possiamo parlare di due nomi originariamente divisi e solo successivamente uniti (probabilmente in epoca romana o successiva). Vul/Val per la valle, Arn-a (oppure -u) per il rio. In tal modo possiamo ricostruire il nome della Vallarsa come venne pronunciato in tarda epoca retica e nel periodo romano e post-romano, finché nel medioevo, a partire da Carlo Magno, non iniziò la "Verdeutschung" (tedeschizzazione) di tutti i topomnimi dell'area alpina. Curioso il fatto che un termine caro ai Laivesotti come "todesc" (tedesco) compaia per la prima volta intorno all'anno 700 d.C., dove si parla di "thiudisk". Nel 786 appare la forma theudisk, quando il cappellano di Carlo Magno scrive che certe delibere imperiale furono redatte "tam latine quam theodisce, quo omnes intelligere possent (scritte sia in latino che in "todesc", in modo che tutti le possano intendere). Carlo Margno affermò nell' 801 in Lombardia che non parlava la lingua latina/romanza ma "theodisce". Dunque questo "thiudisk" deriva da diutisc, popolo, e il thiudisk altro non era che la lingua ovvero il dialetto del popolo, contrapposta a quella del ceto "colto" rappresentato dalla chiesa e dagli studiosi che continuavano a usare il vecchio latino.
Concludendo, il vero nome della Vallarsa, per come si è sviluppato dall'epoca preindoeuropea in poi e fino al medioevo, dovrebbe essere stato Valarnusa, che significa la valle da cui scende il rio. Una definizione chiara e, soprattutto, sensata.Tutte le forme successive sono di fatto adattamenti, forzature (a volte violente) o addirittura errori di traduzione o trascrizione, come risulta evidente, per esempio, proprio dal termine insensato Vallarsa (traduzione letterale del medievale Brant), ottenuto semplicemente con l'eliminazione di parte del suffisso -nu(sa): Valar-nu-sa.
© Reinhard Christanell 2016
Jauch
Rispetto al vetusto termine Valarnusa (per Vallarsa) risalente con ogni probabilità ai tempi dei primi insediamenti stabili nel nostro territorio, facciamo ora un salto in avanti di qualche secolo per incontrare un altro toponimo fondamentale per Laives: Jauch.
Come tutti sanno, questo termine descrive la parte bassa del paese, tra via Stazione e le "buse del tram", corrispondente più o meno alle attuali via A. Hofer e Galizia. Sappiamo, grazie agli scavi effettuati dal 1980 in poi, che la zona ai margini estremi del conoide alluvionale era già abitata e parzialmente coltivata in epoca preromana. Non è dunque da escludere l'ipotesi che successivamente in epoca romana sia stata più intensamente sfruttata a fini abitativi e soprattutto agricoli.
E con ciò veniamo al significato del termine, che ci aiuterà a comprendere anche la storia del luogo.
Jauch deriva dal termine tedesco medievale "Jauchert", (vier jaugert weid (weit) nemb wir ein zil, da bauen wir hie einen saal... scrive infatti J. Ayrer: quattro jauchert di pascolo...), in precedenza nell'antico alto tedesco "jûchart", poi jûchert e jiuchart.
Il termine è di indubbia derivazione latina, in quanto trae origine da jugerum, con riferimento anche a "jiuch" e "joch", giogo.
Jugerum - ovvero iugero - era un'unità di superficie agraria utilizzata dai Romani. "Lo iugero equivaleva all'area di terreno - un rettangolo di 12×24 pertiche di lato - che era possibile arare in una giornata di lavoro con una coppia di buoi aggiogati (di qui l'etimologia da "iugum", cioè "giogo"). Lo iugero corrispondeva così a circa un quarto di ettaro, più precisamente a 2.519,9 m²", ci spiegano tutte le enciclopedie.
Insomma Jauch, il nostro Jauch di Laives, altro non è che un termine secolare trasportato oralmente da un'epoca e da una civiltà all'altra per designare quelle parti di terreno assegnate a singoli coltivatori quando nella parte alta del paese non vi erano più terreni liberi, come successivamente accadrà nello stesso modo con le vicine "Part" attribuite ai piccoli agricoltori in epoca asburgica.
© Reinhard Christanell 2016
Adige
Uno dei toponimi più antichi non solo della Bassa Atesina ma di tutto il Tirolo “storico” (ovvero dell’antica Rezia precedente la conquista romana) è quello del fiume Adige.
Infatti, abbiamo già visto come gli idronimi siano in gran parte di origine preromana e addirittura preindoeuropea, portati e introdotti nelle nostre terre da popoli provenienti da regioni lontane prevalentemente (medio-)orientali e/o caucasiche.
Per mettere dei paletti temporali, ovviamente molto approssimativi, possiamo dire che a partire dalla biblica inondazione mesopotamica (da cui il racconto dell’arca di Noè) che pare abbia avuto luogo intorno all'anno 5500 a.C. a causa dello scioglimento dei ghiacciai che avevano coperto gran parte dell’Europa centrale durante l’ultima glaciazione e del conseguente, inarrestabile ingrossamento del Mar Mediterraneo che irruppe nel Mar Nero distruggendo le ricche coltivazioni presenti, il flusso di popoli più o meno numerosi da est verso ovest è stato ininterrotto per alcuni millenni.
Popoli e culture si sono succeduti senza lasciare tracce significative se non in alcuni nomi di luoghi e in particolare di corsi d’acqua, già allora di estrema importanza negli spostamenti e nella delimitazione dei territori.
L’Adige, ii nostro Adès, in tedesco Etsch, in latino Adisch o Adesch, Athesis in latino, Atheses o Άθεσης in greco antico, è uno di questi grandi e importanti fiumi, da sempre arteria vitale (ma anche fonte di grandi calamità) per tutte le comunità stanziate nei pressi delle sue rive.
Per quanto riguarda il suo nome si è oramai orientati decisamente verso forme e radici molto lontane nel tempo, culminate in quelle che conosciamo oggi attraverso varie fasi di più o meno significativi mutamenti ortografici ad opera delle popolazioni arrivate nel corso dei secoli.
La forma originale, sempre riconoscibile, dovrebbe essere quella preindoeuropea di At-ik-s, (poi anche Atixe, Atikxe, Atti-khe etc.).con la radice At- che dovrebbe significare acqua e il suffisso –iks (E-tsch, Ad-ès) che dovrebbe completare il nome nel senso di “(grande) acqua che percorre la (nostra) valle”.
Vi sono poi studiosi che hanno trovato una singolare e suggestiva coincidenza tra il nome Adige e altri idronimi locali con alcuni toponimi di una regione caucasica, l’Adighezia, dove pure compare questo nome Adygea. Ne parleremo in una prossima occasione parlando di un altro fiume a noi molto vicino, l’Isarco.
© Reinhard Christanell 2016
Isarco, Eisack
Sul Trofeo delle Alpi di La Turbie, in Francia, sono incisi i nomi dei 46 popoli alpini sconfitti dai Romani nel 15 a.C. Nell'elenco compaiono, tra gli altri, i Venosti, i Breuni, i Brixeneti e gli Isarci. Questi ultimi, probabilmente, abitavano la parte bassa della valle del fiume Isarco, giacché i Brixeneti secondo lo storico Claudio Tolomeo sono considerati i più settentrionali tra i Reti. Ne consegue che gli Isarci erano insediati tra Bressanone e la confluenza di Adige e Isarco (vd. foto 1), a sud di Bolzano e non lontano dal territorio del comune di Laives.
Un popolo, dunque, che occupava non tanto il fondovalle notoriamente inospitale quanto i pendii e le alture laterali della valle, come per esempio le zone tra Velturno e Barbiano e da Ponte Gardena alla Val d'Ega. Infine non è affatto fuorviante pensare, che anche il territorio montano e pedemontano tra Cardano e Laives (compresi S. Giacomo e Seit) fosse abitato prevalentemente da Isarci, il cui "regno" si estendeva fino a Nova Ponente, Nova Levante, Aldino e al Passo Oclini, dove si trovavano i pascoli estivi degli allevatori della valle.
Ovviamente l'odierno Unterland era frequentato anche da altri popoli retici quali gli Anauni e i Tridentini (prevalentemente insediati sull'altra sponda dell'Adige, verso Vadena e Caldaro e in collegamento con i laboratori artigiani della Valle di Non), che però non compaiono nell'elenco di La Turbie in quanto con ogni probabilità erano già stati assimilati in precedenza dai Romani.
Questa lunga premessa ci aiuta a comprendere quale fosse, per il nostro comune e la gente che lo abitava, l'importanza del fiume Isarco, oggi quasi "dimenticato", e quanto antico fosse il suo nome: Eisack in tedesco, Isarch in ladino, in latinο Isarus o Isarcus, in greco antico Isarchos, Ίσαρχος. Vedremo che le sue origini affondano nella notte dei tempi, come nel caso della maggior parte dei corsi d'acqua europei.
Ar come acqua
Parlando, qualche tempo fa, del nostro Rio Vallarsa/Brantenbach, abbiamo detto che la forma originaria del nome potrebbe essere stata quella di (Val)arnu(sa) in quanto il radicale "ar(n)" nelle lingue di origine camito-semitica diffuse in Medio Oriente, che fortemente hanno influenzato la toponomastica dell'interno continente europeo fin dall'epoca preindoeuropea (dunque, per intenderci, parliamo di un periodo cosiddetto proto-basco, antecedente perfino la famosa ciaspola di Oetzi), significa acqua. E sappiamo per certo che i nostri antenati attribuivano ai luoghi da loro frequentati nomi molto semplici, brevi e comprensibili a chiunque. Certo le successive modifiche e sovrapposizioni hanno spesso stravolto questi toponimi e in particolare i corsi d'acqua, antichi di millenni, hanno subito molteplici variazioni che spesso li rendono quasi irriconoscibili. Per nostra fortuna, comunque, i vari popoli transitati sul nostro territorio non hanno quasi mai cancellato del tutto i nomi dei loro predecessori ma si sono accontentati di adattarli alle loro necessità linguistiche e culturali.
Torniamo allora all'Isarco, il fiume che, tra l'altro, diede nome agli abitanti del territorio tra Bressanone e Laives, gli irriducibili Isarci, capaci di tener botta fino all'ultimo al potentissimo esercito romano di Druso e Tiberio. Anche in questo caso è preponderante la presenza nel nome della radice "ar", che, abbiamo detto, significa acqua. Ci sono, in Europa, un'infinità di corsi d'acqua piccoli e grandi che prendono nome da questo radicale primitivo: in Germania la Ahr e l'Isar, in Svizzera la Aar, in Italia l'Arno, l'Arrano, il Sarca (con i paesi di Arco, Ponte Arche), l'Arrai, l'Aratu (questi ultimi due in Sardegna), in Spagna l'Ara, l'Aranda, l'Aragon... Accanto al radicale "ar" in moltissimi nomi compare la particella "is": pensiamo solo all'Isère in Francia, all'Isar in Baviera, all'Oise, all'Isard, all'Isarno e all'Yser in Belgio. Non ultimo, il nostro Isarco, che dunque fa parte a pieno titolo di questa famiglia di corsi d'acqua anticamente denominati con il radicale "ar" accoppiato al quasi tautologico "is". Il significato del termine Isarco è dunque anche in questo caso semplice: acqua fluente. (Nell'immagine la confluenza tra Talvera e Isarco.)
Lusina, il rio della luna
Abbiamo già visto come i vari toponimi presenti nel nostro comune risalgano a periodi diversi e a volte molto distanti tra loro ma siano sostanzialmente rimasti - con i necessari adattamenti fonetici - invariati nel corso dei secoli. Ciò è dovuto al fatto che un tempo i nomi della maggior parte dei luoghi venivano tramandati oralmente e "rispettati" quasi come cose sacre dalle varie popolazioni che si sono via via avvicendate. La creazione dei toponimi coincide quindi sempre con i grandi flussi migratori (pacifici o anche no), per cui abbiamo una prima fase cosiddetta preromana e per certi versi addiritura pre-retica (lingue mediterranee residue), che vide la formazione di molti toponimi tipici di località, corsi d'acqua, monti, pascoli eccetera abitati o comunque frequentati dalle prime popolazioni stanziali delle regioni alpine.
Successivamente vi è la fase romana, durata quasi mezzo millennio, che ha parzialmente corretto o adattato molti toponimi aggiungendone poi anche di nuovi e una terza fase, coincidente più o meno con la germanizzazione dell'intero arco alpino a partire dal 700/800 dopo Cristo.
Tracce di questo sviluppo abbastanza lineare e inconfutabile si riscontrano, come detto, anche nel nostro piccolo territorio, con nomi come "Jauch" e "Raut" che sicuramente appartengono all'ultimo periodo citato e altri come "Isarco", "Adige" e altri ancora che vedremo in seguito di chiara origine preromana.
Uno dei nomi sicuramente più antichi del territorio - anche se non è chiaro da quando sia in uso e se sia da attribuire agli abitanti della valle o piuttosto a quelli montani - è quello di un ruscello che scende a lato dell'abitato di Pineta / Steinmannwald, il Rio Lusina o Luesenbach.
Lusina è un nome diffusissimo nelle regioni alpine (Lasino, Lesina, Losino ecc.), e ne abbiamo un esempio abbastanza vicino in quel di Luson nei pressi di Bressanone, dove esiste un ruscello che porta lo stesso nome. Già all'anno 893 risalgono le prime testimonianze scritte del nome Lusina, evidentemente in uso presso le popolazioni romanico/ladine del periodo post-romano. Alcuni secoli dopo viene trasformato in Lusena, più tardi ancora in Lysen.
Il nome, di provenienza retica o comunque preromana, in origine dovrebbe essere stato quello di "Lusna", successivamente "Lusuna", è dovrebbe derivare proprio dal termine Lusna con il significato di luna, dalla radice leuk-, luce.
Ora non è del tutto chiaro se Lusina porti questo nome perché la valle ha forma di mezzaluna (come nel caso di Luson) o perché è il luogo in cui sorge la luna mentre il sole scende dietro la Mendola. Forse non si saprà mai - ma comunque ci conforta l'idea che quella valletta e quel rio portino il nome del nostro principale satellite naturale.
St. Antonio
Abbiamo già esaminati diversi toponimi locali come Jauch, Raut, Vallarsa, Adige eccetera.
Proviamo ora a "immedesimarci", con la dovuta circospezione, in un nome di fatto scomparso sia dalla parlata laivesotta che dalle carte topografiche come St. Anton / S. Antonio, cercando di ricostruire, con i pochissimi e non certo univoci elementi disponibili, luogo e origine del nome.
Va detto che, a causa della scarsa “funzionalità” del nome, che non deriva da una particolare conformazione del paesaggio o da una determinata attività ma consiste in un appellativo astratto, in questo caso le difficoltà saranno maggiori e le probabilità di "successo" infinitamente minori.
Vediamo prima di tutto qual è il luogo chiamato così: e qui, per fortuna, possiamo appoggiarci ad una mappa catastale del IXX. secolo che attribuisce al "quartiere" centrale ossia all'agglomerato di edifici attorno all'omonima chiesa questo nome. Poiché sappiamo che fino a metà del IXX. secolo il centro (Ortskern) di Laives si trovava leggermente più a valle lungo la vecchia strada postale (tra Vecchia Posta/Koelblhof e Thurnhaus), possiamo tranquillamente dire che St. Anton era il nome attribuito alla "zona sacra" del paese ovvero a quella parte della "cittadella" comprendente i luoghi di culto e di sepoltura - mentre i luoghi del "potere secolare" rimasero a lungo nel paese vecchio prima di riunirsi alla chiesa all'inizio del novecento con il nome di “Dorf / paes”, denominazione che compare in qualche descrizione di Laives e dei suoi “quartieri”.
Sappiamo con certezza che a differenza dei moltissimi micro toponimi “pagani”, sorti dalle esigenze della vita quotidiana e quasi sempre di natura “popolare”, i nomi di santi venivano di solito attribuiti in via “istituzionale”. Infatti l’utilizzo di un nome di santo – di per sé un gesto forte - era finalizzato quasi sempre a “reprimere” e sostituire il nome precedente particolarmente significativo per un periodo storico o la vita della comunità. Insomma, dagli albori della Cristianità si usavano i santi specialmente per “coprire” i nomi di divinità appartenenti a culti precedenti, come allo stesso modo si edificavano templi cristiani sui luoghi dove prima sorgevano quelli pagani.
Per essere più concreti: possiamo senz'altro dire che il luogo denominato St. Anton fin da tempi molto remoti ospitava un edificio dedicato al culto di una qualche divinità precristiana e quindi portava un nome derivato da questa: nome di fatto scomparso per sempre dalla memoria della comunità. Una conferma in tal senso ci deriva proprio dal lavoro di ricerca degli archeologi che hanno ipotizzato sotto l’attuale chiesa l’esistenza di un tempio paleocristiano o addirittura precristiano.
St. Antonio Un antico rito
Quando le fonti diventano lacunose o ci abbandonano del tutto e pare impossibile proseguire sulla via della ricostruzione storica, non ci resta che cercare altri percorsi magari più tortuosi e all’apparenza fuorvianti ma non per questo meno utili allo scopo.
Se dunque partiamo dal presupposto che nel sito di cui stiamo parlando prima di una peraltro antichissima chiesa cristiana (“in villa Leifers quidam capella in honorem sancti Antoni confessoris antiquitis constructa” si può leggere nel Comendatarius trentino – ossia di una cappella costruita a Laives in tempi remotissimi, probabilmente molto prima dell’anno 1000 tra l’epoca dei Baiuwari e i Carolingi) si trovasse un luogo di culto pagano e il nome di Antonio fu utilizzato per “cancellarne” la memoria, non possiamo che chiederci perché è stato scelto proprio il nome di questo e non di un altro santo. Perché, per esempio, non Vigilio, che portò il Cristianesimo in questa zona ed era veneratissimo a Laives e nella Valle dell'Adige?
Chi era, dunque, questo Antonio? Sappiamo, dai racconti di Sant'Atanasio, che nacque nel 250 in Egitto, dove trascorse tutta la sua vita da anacoreta dapprima nel deserto e poi sulle rive del Mar Rosso, morendo ultracentenario nel 356. Viene raffigurato quasi sempre circondato da animali e in particolare da maiali, da cui deriva anche il suo soprannome "S. Antonio dei porcelli", in tedesco "Fockntoni". E di questi animali (il cui nome deriva dalla dea Maia) nonché degli altri animali domestici era considerato il protettore. Il suo nome è legato anche al noto "fuoco di S. Antonio", ma questa è un'altra storia. E' invece interessante la circostanza che in alcuni paesi “celtici” (direi “alpini”) S. Antonio sostituì un’antica divinità della luce e della rinascita e gli erano consacrati maiali e cinghiali che venivano “sacrificati” il 17 gennaio in suo onore.
Sono convinto che proprio in questo antico rito diffuso nel mondo rurale risieda la ragione che ha indotto i nostri antenati (ed anche molte altre comunità) a scegliere il nome di Antonio. Infatti sappiamo per certo dalla vita di S. Vigilio, attivo poco dopo la morte di Antonio, che anche nella Valle dell'Adige vigeva un'antichissima usanza che proprio in quel periodo dell’anno prevedeva la “liberazione” dei “ruganti”, che potevano scorrazzare per i campi inseguiti dai contadini che intendevano – e di fatto gli facevano – la festa. La leggenda di San Vigilio ci narra che i suoi quattro missionari spediti in Anaunia per cristianizzare i pagani del luogo volessero impedire proprio questo rito e perciò furono barbaramente assassinati dai devoti inferociti. Questo rito era dedicato al dio Saturno, e prima ancora ad un’altra divinità preromana.
Ecco dunque spiegato qual’era il gravoso compito di Antonio: subentrare, nella credenza popolare, con le stesse “funzioni” e “garanzie di prosperità”, all'antica divinità (Saturno), assumendo di fatto la protezione dei campi, della fecondità e della rinascita della natura. Solo lui era in grado di far scordare agli adepti dell’antico culto la loro venerata divinità e a trasformare un rito apparentemente brutale e sanguinario in una festa di stampo cristiano, che peraltro mantenne intatta l'usanza della "libera circolazione" dei maiali per le vie del paese.
L’ipotesi più probabile è perciò quella che un antico rito pagano quale quello celebrato in onore di Saturno, padre dell'agricoltura, sia stato all'origine della scelta del nome di Sant'Antonio per la chiesa e un “quartiere” molto importante di Laives, in precedenza consacrato ad un’altra divinità, quasi certamente il dio Saturno.
St. Antonio conclusioni
Per concludere il nostro ragionamento, diciamo che il culto di Sant'Antonio si diffuse in Europa intorno all'anno 1000, quando le sue reliquie furono portate in Francia a La-Motte-au-Bois, cittadina a metà strada tra Grenoble e Valence (che poi si chiamerà Saint-Antoine-en-Viennois). Non è dunque azzardato supporre che solo dopo quel momento il sito (e la chiesa) di Laives denominato "St. Anton" ottenne quel nome.
La testimonianza medievale del Vescovo di Trento (ma non è l'unica) che parla di "capella in honorem sancti Antoni confessoris antiquitis constructa" circoscrive ulteriormente il tempo da prendere in considerazione. "Antiquitis" non può che riferirsi a tempi remotissimi (Urzeit), che per un alto prelato tardo-medievale possono ragionevolmente considerarsi gli albori del proprio tempo ossia la parte terminale dell'Alto Medioevo (anno 1000).
Ciò appare convincente anche per il motivo che il Cristianesimo, religione ufficiale fin dai tempi di Teodosio (380), tardò a diffondersi nelle remote valli alpine anche a causa del dominio bavarese (fino al 788) su gran parte dell'odierno Tirolo, Bolzano e Laives comprese. La scarsità di edifici di culto paleocristiani rinvenuti è abbastanza eloquente: dalle nostre parti è nota solamente la basilica di S. Pietro presso Castelvecchio/Caldaro, risalente al V. secolo. La chiesetta di S. Procolo a Naturno è del VII. secolo.
E' dunque solo in epoca carolingia e postcarolingia che si può ipotizzare l'introduzione del toponimo "St. Anton".
Scrive lo studioso Imbrighi: "Tutti i toponimi preceduti dal titolo "Sant- o Santo" spesso hanno sostituito quelli di origine più antica." In effetti, pur in assenza di testimonianze degne di nota, non si può escludere che prima di quella famosa "capella" costruita a Laives (trattavasi certamente di un edificio molto piccolo, considerato che all'epoca l'abitato contava non più di qualche decina di case; ancora nel 1854 si parla di 70 edifici), il luogo fosse consacrato ad una divinità pagana: posto che è difficile pensare che i (pochi) Romani e post-Romani insediati sul nostro territorio (specialmente in Galizia e Sottomonte) non praticassero alcun culto. E poiché l'agricoltura era il perno di quel mondo, si può senz'altro dedurre che uno spazio o area sacra dedicata a Saturno (di piccole dimensioni anche in questo caso) esistesse in quel posto (o in un altro non lontano). Non si dimentichi che il culto di Saturno era diffusissimo nella Valle dell'Adige e lo stesso S. Viglilio subì il proprio martirio a colpi di sgalmere in Val Rendena per aver gettato nel fiume Sarca una statua di questa divinità.
St. Pietro
Nel caso del nome in esame, St. Peter o S. Pietro, siamo in presenza di una sorta di "fossile" linguistico e geografico di difficile classificazione ma ciò nondimeno della massima rilevanza storica.
Scrive infatti nel 1903 il sacerdote e storico Karl Atz nel suo "Der deutsche Antheil des Bisthums Trient" (La parte tedesca della diocesi di Trento): "Die Curatie Leifers bestehend aus den Vierteln: Dorf, Unterau, St. Peter und Breitenberg", ossia la parrocchia di Laives composta dai quartieri di Paese, S. Giacomo, S. Pietro e Montelargo.
In altre descrizioni dei territori della Bassa Atesina risalenti a vari periodi tra 600 e 800, questo "St. Peter" non compare, perché evidentemente si tratta di una antichissima definizione lentamente scomparsa dall'uso comune e nota a pochi studiosi.
Ai tempi nostri, del nome di S. Pietro rimane traccia in "Rione S. Pietro / St. Petersiedlung" a monte di via Negrelli e soprattutto nel cosiddetto "Peterköfele" ovvero St. Peter am (oppure auf dem) Kofel, S. Pietro sul colle.
Sorge dunque spontanea la domanda: ma dove si trovava questo "quartiere di S. Pietro?"
Siamo dell'avviso che il territorio di Laives si popolò, nel corso dei millenni, dall'alto verso il basso ossia dapprima su pendici, colline e zone comunque poste ad una qualche altezza (e distanza) rispetto al fondovalle (per esempio Vallarsa) e solo successivamente e con molta cautela sul conoide alluvionale e nella vera e propria pianura verso di Vadena e il Monte di Mezzo. Il motivo di tale situazione va ricercato innanzitutto nel "clima insalubre" di cui parlano molti geografi e studiosi di varie epoche, clima influenzato pesantemente dal corso disordinato e invadente del fiume Adige e dalla malaria provocata dai terreni paludosi da questo formati nel corso del tempo. Non dimentichiamo che fino a metà 800 la malaria veniva comunemente chiamata "Leiferer Tod", la morte di Laives.
Insomma, benché già in epoca preromana e poi romana troviamo piccoli insediamenti (tenderei a dire soprattutto autunnali e invernali) a fondovalle, inizialmente le parti più pregiate e protette del territorio furono quelle poste in altura e, tra queste, una parte preminente spettò senz'altro a S. Pietro.
St. Pietro Un luogo sacro
Se non sarà facile delimitare esattamente l'antico "quartiere" di S. Pietro o St. Peter, è tuttavia di facile individuazione il suo "centro". Ma prima di parlare di quest'ultimo, va detta un'altra cosa: è molto probabile che un luogo "unitario" chiamato "Laives" (in tutte le varie forme note, di cui ci occuperemo un'altra volta) non sia sempre esistito. In altre parole, per molti secoli (perlomeno a partire dall'epoca romana) i vari insediamenti disseminati sul territorio che oggi conosciamo come "Laives" hanno goduto di una propria "vita autonoma" e solo in epoca relativamente recente sono stati riuniti sotto il cappello chiamato "Laives". La stessa cosa si può riscontrare nella vicina Bolzano, di cui peraltro Laives è quasi sempre stato parte integrante: Gries, Dodiciville, Castelfirmiano eccetera si consideravano località affatto distinte dalla città "unita" poi chiamata Bolzano.
A Laives questo fenomeno di micro-insediamenti può aver visto la presenza, oltre a S. Giacomo, Seit e Breitenberg anche di piccoli agglomerati urbani (Weiler) quali Sottomonte / Unterberg e appunto il nostro St. Peter o S. Pietro.
Centro del "Viertel" o quartiere era indubbiamente la piccola chiesetta sul promontorio, le cui prime tracce documentate risalgono all'11. e 12. secolo. La chiesetta stessa pare esser stata "esterna" all'attiguo castello dei Lichtenstein e aver brillato di luce propria: tanto che Mainardo II., che distrusse il castrum superior nel 13. secolo, non toccò invece la vicina chiesetta.
Non è difficile immaginare che in quel luogo esistesse da tempo immemorabile un luogo sacro: non necessariamente una chiesa o un tempio (gli antichi "pregavano" specialmente in luoghi suggestivi come rilievi esposti, boschi o prati sacri, ruscelli eccetera e solo raramente costruivano templi di legno o altro ma utilizzavano come "altari" pietre particolarmente impressionanti) ma senz'altro un luogo di culto pagano. Abbiamo trovato traccia di un'antichissima usanza riferibile ad alcune comunità della zona sotto il Corno Bianco che fino al 18. secolo venivano in pellegrinaggio a St. Peter am Kofel: ne parleremo un'altra volta, perché la cosa è assai significativa. Diciamo solo che la divinità venerata sul Peterköfele era di grande rilievo per la popolazione ed attirava pellegrini da ogni dove.
Ciò spiega anche la scelta del nome: Pietro, come Maria, era un nome di assoluto rilievo utilizzato in tempi molto remoti per simboleggiare "la rinascita nel nome del Cristo" ovvero per cancellare definitivamente il precedente culto pagano; inoltre, veniva impiegato quasi sempre per luoghi di culto situati su promontori o colline con ampia veduta.
Reif, un quartiere storico
A differenza di St. Peter, nome facile da comprendere ma difficile da localizzare con precisione, il "Flurnamen" (da Flur, che significa corridoio ma anche piccola parte di territorio, abitato o meno) Reif, in uso da molti secoli, non pone problemi di abbinamento territoriale ma lascia moltissimi dubbi per quel che riguarda il suo autentico significato linguistico e storico.
In altre parole: tutti sanno dove si trovi, la Reif di Laives, ma, curiosamente, nessuno sa esattamente a cosa debba il suo misterioso nome o, meglio, ognuno ha in mente un significato diverso per questo termine "Reif" (pronunciato raif). E il bello è che tutti questi significati che poi andremo ad analizzare non possono essere scartati a priori perché tutti hanno un che di verosimile che ne giustifica l'esistenza.
Ma andiamo con ordine: La Reif, forse il "quartiere" (Viertel) più noto e soprattutto più antico di Laives, corrisponde a quella striscia di terra che ai piedi del promontorio del "Peterkoefele" copre la superficie che, metro più metro meno, corre dalla Filanda al Bar Brunner.
Non è difficile immaginare che proprio qui sia nato, molti secoli fa, il paese di Laives "in valle" (ossia a prescindere dall'occupazione delle pendici del Montelargo) come lo conosciamo oggi: perché proprio qui sono state rinvenute importanti tracce di un antico insediamento preromano o retico a testimonianza di una presenza stabile e culturalmente significativa.
Di fatto la Reif presenta tutte le caratteristiche di un "villaggio ideale": protetto alle spalle, bene esposto, vicino alle fonti d'acqua e, soprattutto, abbastanza lontano dalle note e temutissime insidie della palude. Soprattutto nel medioevo, questo territorio ai piedi del castello dei potenti Lichtenstein ha acquistato una grande rilevanza: perché qui, all'imbocco della Vallarsa, nacque forse il più grande e importante punto di raccolta e smercio di legname di tutto il Norditalia.
Reif, dal cerchio alla botte
Per molti Laivesotti, “la Raif” è sinonimo di luogo freddo, specialmente d’inverno, quando il sole sbuca tardi dietro il Montelargo e la brina imbianca l’erba dei prati e brilla sull'asfalto e sui tetti delle case. Molti ricordano ancora (con nostalgia) le favolose slittate sull'erta ghiacciata della Reif - e in questo senso Reif per molti Laivesotti ha sempre fatto rima con “slaif”.
In effetti, il termine “Reif”, accanto a molti altri significati, in tedesco ha anche quello di brina (Raureif).
In realtà, la parola Reif deriva dall'antico germanico “raips”, nell'alto medio tedesco rīfe e poi rīfo, con il significato originario di "qualcosa che si può asportare, spazzar via facilmente (abstreifen).
Successivamente il termine è stato utilizzato in varie accezioni, il più diffuso era quello di “funis”, fune, corda, nella dicitura “reifa”, ed era caratteristico del linguaggio marinaresco. In inglese ha conservato solo questo significato.
Insomma, chi nella sua mente accomuna il termine Reif a brina non compie, da una punto di vista linguistico, un peccato mortale: anche se, come vedremo, non è probabilmente questa la scelta giusta per la nostra Reif.
Altro significato molto comune per questa parolina magica è quello di cerchio (circolus), in particolare con riferimento ai cerchi delle botti. Potrebbe, questo, essere un indizio per la nostra Reif, in quanto non è escluso che in quei luoghi nei pressi del Rio, dove in epoca medioevale troviamo varie botteghe di fabbro, in tempi molto lontani si fabbricassero quei cerchi metallici che poi servivano a comporre le botti per il vino.
Altra possibile interpretazione di “Reif” è quella ormai dimenticata di insegna: in epoca medievale si usava esporre insegne tondeggianti (a volte semplici cerchi) per segnalare la presenza di un’osteria. L’insegna si chiamava “faszreifen”, letteralmente cerchio della botte. Aprire un’osteria si diceva anche “einen reiff aufstoszen”, impiantare un cerchio (di botte). Non è dunque del tutto fuorviante l’ipotesi che all'origine di questo nostro Reif ci sia un’antica osteria ubicata sotto il castello dei Lichtenstein, più o meno al posto dell’odierna Pfleg. Ma, ripeto, è una delle tante ipotesi che elenchiamo per onestà intellettuale.
Reif, una misura
Come si sarà capito, il nome "Reif" sembra fatto apposta per disorientare. Ma non ci perdiamo d'animo: perché con ogni probabilità la verità è nello stesso tempo più semplice e meno scontata di quanto sembri.
Diciamo intanto che molti studiosi di storia locale fanno derivare il termine Reif dal latino ripa, in italiano riva. Non è, sia chiaro, un'ipotesi destituita di fondamento: perché in effetti le due parole si assomigliano e in un certo qual modo designano entrambe qualcosa che si trova nei pressi di uno specchio d’acqua. Ad ripam, cioè nei pressi della riva è certamente l'origine del nome della città di Riva del Garda, che in tedesco si chiama proprio Reif (o Reyff).
Ma la soluzione non soddisfa del tutto perché la nostra Reif non viene mai citata in combinazione con un rio ma invece sempre con il termine Holz, legna. Infatti si dice Holzreif - con il significato di deposito di legname. E una Holzreif non esiste soltanto a Laives (e non solo in riva ai ruscelli) ma se ne conoscono, per esempio, a Bronzolo e a Bolzano lungo il Talvera, dove peraltro fu fucilato dai Francesi Peter Mayr, compagno di Andreas Hofer.
Va anche detto che il termine latino ripa deriva dalla radice sanscrita ri-, scorrere (da cui anche rio), mentre, come abbiamo detto, la nostra Reif deriva dal Mittelhochdeutsch (medio alto tedesco) rife, poi divenuto Reyff con il significato di nastro o cerchio strappato.
E allora? Allora noi siamo convinti che la Reif che interessa noi abbia il significato di "deposito di legname" e non di "riva" anche per un altro motivo, stranamente sfuggito a pressoché tutti gli studiosi: Reif era un'antica unità di misura in uso in alcune zone della Germania, con la quale si misurava la stoffa ma... anche la legna da ardere. In un vecchio dizionario abbiamo trovato la seguente definizione: "da man das brennholz in der weise zu messen pflegte, dasz man es mit einem strick oder einer kette von bestimmter laenge umspannte, finden wir reif und rep auch als holzmasz... dann auch in der bedeutung buendel ueberhaupt..." (poiché la legna da ardere si misurava avvolgendola con una fune o una catena di una determinata lunghezza, troviamo reif e rep anche come unità di misura del legname…e poi nel significato traslato di fascina.)
Ecco svelato l'arcano. Reif (e di Reif a Laiives ce n’erano almeno tre: quella vescovile alla Pfleg, quella dei Conti del Tirolo e infine quella del Comune di Nova Ponente, proprietario anche del Reifhaeusl) nulla o poco c'entrava con la riva ma era un termine che faceva parte del linguaggio gergale dei commercianti di legname, che inizialmente lo utilizzavano per determinare un certa quantità di legname, una fascina diremmo oggi. Poi, con il passare del tempo, è diventato sinonimo di deposito di legname, in quanto vi si depositava una determinata quantità di legname (una o più reif) per la quale si doveva pagare l'occupazione del suolo. Un po' il servizio che oggi offrono i moderni centri di logistica. E coloro che trasportavano il legname con tiri di buoi o cavalli fino all'Adige in virtù di antichi privilegi si chiamavano Reiftschanderer: proprio perchè ogni carico era composto di un certo numero di Reif di tronchi.