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Dos de la Forca e i primi pescatori di Salorno

Aggiornamento: 13 gen 2022

di Reinhard Christanell ©

Servizio fotografico: David Kruk ©


Tra i luoghi della memoria più significativi ma anche meno “celebrati” della Bassa Atesina rientra indubbiamente, accanto a Vadena, Castelfirmiano e Castelfeder, il sito mesolitico denominato Galgenbühel / Dos de la Forca nei pressi di Salorno.

Dos de la Forca ©


A pochi passi, una storica linea di confine. Di qua e di là dell’Adige, le corpulente pareti bianche cadono a precipizio sulla valle formando, da millenni, piccoli conoidi che riducono lo spazio e le vie di passaggio.

In tempi preistorici, dopo il repentino ritiro dei ghiacciai wurmiani e il ritorno a un clima simile al nostro, questo lembo di terra ha offerto, sotto le rocce sporgenti, riparo ai primi cacciatori e raccoglitori che osavano “battere” il territorio della Val d’Adige. “Aree di sosta” stagionali simili a questa sono riscontrabili anche a Zambana e Romagnano, o verso la Val di Non e Folgaria, da cui sembra provenire la selce utilizzata per forgiare le armi.

È, questo, soprattutto un confine di suoni, di parole. Un luogo dove un ipotetico nord si trasforma in un chimerico sud – e viceversa. Per noi, soprattutto un termine temporale che ci ricollega alla nostra storia in questa terra.

La montagna di pietra dolomitica sopra di noi si chiama Monte Alto, Geiersberg. Tutta l’area ai suoi piedi è occupata da un’enorme cava di ghiaia. Di fronte a noi, immersi nella penombra pomeridiana, il soleggiato paese trentino di Roveré della Luna. In mezzo, il fiume che taglia in due la valle e probabilmente ha attratto i girovaghi che si sono insediati qui già nell’Olocene, all’incirca 10000 anni fa.

La cosa singolare, come dimostrano i resti faunistici rinvenuti nei vari strati degli scavi effettuati a fine anni novanta, è che queste persone rimanevano nel fondovalle anche nella


bella stagione e non, come si pensava prima, solo nei periodi freddi. Più tardi, nel bronzo e poi in epoca romana, il minuscolo villaggio si spostò di qualche chilometro a nord e quest’area fu destinata soprattutto alla combustione dei defunti (utrinum) e, più avanti, anche alle sepolture. Insomma, una vera e propria città dei morti affacciata sul fiume che porta in un altrove sconosciuto.

Non doveva essere facile, la vita, a quei tempi. La valle era invasa dalle acque dell’Adige che, in seguito ai movimenti del ghiacciaio, aveva abbandonato l’Oltradige e si era spostato da questa parte del Monte di Mezzo. Si erano formati molti laghi, stagni, meandri fluviali e zone paludose. Nelle isole di terra e detriti che sporgevano dall’acqua abbondava la tipica vegetazione fluviale e la fauna era quella delle zone umide e palustri. L’attività principale degli uomini che transitavano e si fermarono qui e che ancora non avevano scoperto la domesticazione di piante e animali, consisteva nella caccia e raccolta di frutti selvatici. La caccia avveniva soprattutto in altura, dove cervi e camosci erano le prede privilegiate dei cacciatori. Zone di caccia simili, con ripari temporanei, sono state individuate anche sulla catena della Mendola. Ma qui, ai piedi della massiccia chiusa, non era facile raggiungere le zone montane se non risalendo i boschi che conducono a Cauria. Una strada molto lunga, come troppo lunga dev’essere stata quella sull’altro versante.

Salorno ©


In effetti, tra i resti trovati qui, oltre a vari utensili e oggetti di selce, di corno e di osso lavorati con sempre maggiore cura e maestria, si registrano soprattutto resti ben conservati di pesci e molluschi. Erano dunque questi uomini dediti prevalentemente alla pesca e pare che con il passare del tempo si fossero perfezionati nella pesca del luccio. Probabilmente si formò proprio grazie a questa specializzazione una prima comunità di pescatori abbastanza stabile e capace di sfruttare le risorse di questo particolare territorio.

Accanto alla pesca e alla stagionale caccia d’altura, veniva praticata anche la caccia al cinghiale e al castoro, al gatto selvatico e alla lontra. Insomma, un’era postglaciale che ha visto la rinascita della Bassa Atesina proprio grazie al suo protagonista principale, il grande fiume Adige.



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